A novembre la pioggia è stata così implacabile che non mi sono neppure accorta del passaggio del plenilunio, né della trasformazione del paesaggio verso l’inverno. Quando ha finalmente allentato la sua presa, fiaccata dai venti del nord, la trasformazione era lì, netta, le sfumature perse in una pozzanghera fangosa.
I cachi ora si lasciano individuare da lontano sui rami privi delle foglie variopinte, maturi al punto giusto perché gli uccelli ne approfittino, disperdendone infine i semi. Il giuggiolo che da quel giardino rialzato si affaccia sulla piazza rivela una silhouette spettrale, ora che l’ombrello non cela più lo sguardo verso l’alto, coi suoi rami spogli contorti e cadenti, più oscura ancora di quella del noce, che fa da guardiano al ponte sull’Ombrone. Gli alti pioppi al di là del passaggio hanno steso a terra un tappeto croccante nocciola e argento, che invita a strusciare i piedi nel passarci attraverso, ad ascoltarne la musica.
I colori brillanti di novembre sono svaniti senza quasi lasciarsi guardare; resiste qualche quercia temeraria che tarda a lasciar andare via le foglie, i fiori di alcuni ostinati topinambur e qualche acero campestre, che in punti riparati dal vento porta ancora il color del sole nelle proprie foglie palmate. A breve la monocromia del paesaggio sarà interrotta solo dal rosso delle bacche di rosa canina sulla strada, da quello dei tramonti vernini infuocati e dal verde brillante del grano giovane, come quello germogliato da poche settimane nel mio campo perduto.
L’estate resta sorprendentemente attaccata ad alcuni angoli più riparati; passeggiando ai margini del paese, ai piedi del muretto di un parcheggio, resiste una portulaca, i fusti arrossati a più non posso; nell’aiuola sovrastante tenta ancora di fiorire un iperico, tenero e verdissimo come fosse fine maggio, col giallo dei petali che si intravede nel bocciolo semiaperto; a pochi centimetri prospera una malva ancora zeppa di fiori, che ancora si aprono sicuri ad ogni raggio di sole, più colorati che mai per contrasto con la stagione buia che avanza.
Le gelate, qui, non si sono ancora palesate quest’autunno. Questo blog mi serve anche un po’ da metro di paragone tra le stagioni che si susseguono, per lo meno fino a quando riuscivo a scrivere più assiduamente :). La prima gelata, lo scorso anno, era arrivata in ritardo, poco prima di inizio dicembre; oggi, con la prima decina già passata, ancora nulla, nonostante un po’ di freddo vero abbia già iniziato a farsi sentire. I segnali del clima che cambia si susseguono sempre più numerosi, anno dopo anno, e anche se qui non comportano ancora conseguenze così drammatiche come altrove, mi riesce difficile non notarli e non avvertire una certa apprensione.
Nel frattempo il Natale incombe, ho un sacco di lavoro e di cose da sbrigare e faccio un po’ fatica a prendermi spazi di vuoto o di lentezza. A volte però anche sì, come lo scorso sabato mattina, in cui ho sperimentato una ricetta nuova. L’ho fatto per onorare Michele, che coltiva ortaggi insieme a sua sorella Bruna all’Orto di San Leonardo, e per onorare i suoi gobbi, una varietà di cardi della cui produzione va particolarmente fiero, e che non gli dò mai la soddisfazione di scegliere quando poggio la mia cassetta sulla grossa bilancia a terra e la riempio di verdure fresche. Lui cerca di convincermi in tutti i modi, e io niente, alla fine lo lascio sempre deluso. Miché, ti confesso una cosa: i cardi mi piacciono, è che sono pigra :). E riconosco che la mia è una pigrizia mentale: ci sono ortaggi di cui non ho quasi mai voglia di affrontare la preparazione, ma quando poi mi ci metto, mi rendo sempre conto che non ci vuole poi così tanto.
Come tutti i cardi coltivati, anche i gobbi vengono “imbianchiti”, ossia coperti dal freddo e dalla luce perché crescano più teneri e meno amari. Ma mentre il procedimento per i cardi classici prevede che vengano avvolti con juta, carta o sacchi neri di plastica, crescendo naturalmente in verticale, per i gobbi la questione è diversa: vengono interrati, processo che gli fa assumere una postura curva, che mantengono una volta raccolti. Diventano gobbi, appunto. Rispetto ai cardi che ho preso a volte da Marcello, che li fa crescere in verticale, i loro hanno le coste più larghe e corte e decisamente più bianche. Michele e Bruna si fanno un bel mazzo per interrarli a mano uno per uno, e il prodotto che alla fine raccolgono è davvero buono, per questo ne vanno tanto fieri.
Come pure io sono particolarmente contenta quando mi accorgo che di un piatto che porto in tavola posso raccontare storia e provenienza di ogni singolo ingrediente che lo compone. Di San Leonardo qui ci sono i gobbi e le patate bianche, ne ho preso un sacchettino apposta per sposarle ai loro compagni di campo, nonostante avessi già una bella scorta di rosse, come vi raccontavo nell’ultimo post. I porri sono di Poggio di Camporbiano, presi al lavoro a MondoMangione insieme alle noci piemontesi di Cascina Dulcamara, ai limoni siciliani di Calogero di Grado e agli Aromi del Chianti di Duccio Fontani (il suo carretto coloratissimo ve l’ho fatto vedere nell’articolo che ho dedicato alla Fierucola di Piazza Santo Spirito a Firenze, i suoi mix di aromatiche sono speciali). Le farine, inclusa quella di segale che uso di rado ma che mi piace molto, sono del mio affezionatissimo Podere Pereto, mentre l’olio lo fa un amico dei miei in Sabina. Perfino il vino bianco, che solitamente prendo per due soldi al supermercato per uso culinario, stavolta è, senza farlo apposta, di un produttore che conosco, Podere Alberese (vi ho raccontato di loro un sacco di anni fa qui): avevo una bottiglia aperta di Pittolo avanzata da una cena la sera precedente, un buon Trebbiano-Malvasia frutto di un’annata particolare e non più in produzione. Ne volevo assolutamente una bottiglia, semplicemente in onore al suo nome, che sono stata tra le poche a decifrare all’infuori della cerchia familiare ;). Il pangrattato, infine, è rigorosamente fatto in casa, dalle rimanenze del pane dei miei panificatori preferiti, Giovanni e Martina. Solo del sale non conosco direttamente i produttori: so solo che arriva da Mothia, in Sicilia.
Resto convinta che conoscere il più possibile il percorso che fa il cibo per arrivare sulla nostra tavola sia uno strumento importantissimo per contribuire all’inversione della rotta attuale del sistema alimentare, che sia importante sceglierlo consapevolmente, da produzioni che conoscano ancora il rispetto (nei fatti, non nelle etichette patinate) e la lungimiranza, quella che ti fa lavorare la terra considerandola per ciò che è: non una proprietà privata ma un bene comune preso solo in prestito, da restituire alle generazioni future senza averlo distrutto, ma preservato, e dove possibile migliorato.
I cardi vanno puliti e lessati, prima di poterli usare in diverse preparazioni, ma si possono mangiare anche crudi, in pinzimonio, come si fa con i carciofi. Vanno lessati con del succo di limone, perché restino bianchi, come mi ha suggerito Maria, la mamma di Michele, che mi ha fatto pure assaggiare i suoi cotti nella pentola sul camino, una pentola che lei tira via dalle fiamme a mani nude (ancora non capisco cosa renda ignifughe quelle mani!).
Per pulirli, recidete il torsolo alla base, separate le coste e tirate via i filamenti da ognuna con un coltello seghettato, un po’ come si fa col sedano, partendo dalla base più larga. Tirate via anche un sottile bordo laterale, per eliminare foglie e piccole spine.
Degli aromi di Duccio ho scelto il mio vasetto preferito, quello con l’etichetta arancione, che è un mix di coriandolo, rosmarino, ceci, senape, peperoncino, aglio, cipolla, fieno greco, elicriso. Il sapore è forte e deciso, ne basta davvero una piccola spolverata. Potete usare gli aromi che preferite, anche soltanto del semplice rosmarino tritato o un classico mix provenzale, oppure potete prepararla senza. Potete omettere anche le noci, o sostituirle con mandorle o nocciole, come pure variare le farine come preferite.
L’impasto al vino e olio per la base delle torte salate è diventato un mio grande classico. Si prepara in un attimo, si stende facilmente e velocemente, non ha necessariamente bisogno di riposo. Se doveste uscire a comprare una pasta sfoglia pronta, di quelle zeppe di margarina che vi fanno acidità nello stomaco, ci mettereste di più. Se non avete il vino bianco usate l’acqua, o anche vino rosso al posto del bianco, come in questa mia ricetta di qualche anno fa, e se preferite un impasto più delicato sostituite l’olio d’oliva con un buon olio di semi.
// Torta salata di cardi e patate //
°° Ingredienti (per una teglia tonda diametro 26 cm) °°
- un grosso porro o 2 piccoli
- un cespo di cardi, nel mio caso gobbi
- 2-3 patate bianche (o quelle che avete)
- il succo di mezzo limone
- aromatiche a piacere (per me il mix arancione di Duccio Fontani)
- una decina di noci
- 180 grammi di farina di grani teneri antichi di tipo 1
- 50 grammi di farina di segale integrale
- 80 grammi di vino bianco
- 70 grammi di olio e.v.d’oliva + altro per condire
- pangrattato
- sale marino integrale
La ricetta in rima
AGGIORNAMENTO NOVEMBRE 2020:3-4 anni fa ho scoperto che mio zio Carlo, fratello di mio padre, scrive poesie in romanesco, e che lo fa parecchio bene. L’anno scorso poi, ho scoperto pure che fa parte di un progetto di orto collettivo a Roma organizzato in CSA (Comunità che Supporta l’Agricoltura) esattamente come quello che porta avanti la cooperativa in cui lavoro a Siena. E proprio per il gruppo ricette di Semi di Comunità mi ha chiesto se avessi da passargli qualche cosetta a base di cardo, perché potesse metterla in rima. “Eccerto che ce l’ho”, e subito l’ho rimandato qui. Questo è ciò che ne è uscito fuori. Io l’adoro :). So che i romani apprezzeranno, forse pure gli altri.
Per capire come funziona una CSA e se siete interessati a fare parte di quella romana o senese visitate il sito di Semi di Comunità e di OrtoMangione. Ed ecco la ricetta:
Torta salata de cardi
Visto che nun se stava a smove gnente,
ho domannato aiuto a mi’ nipote,
è una de nojantri, chiaramente.Se chiama Claudia Renzi e cià ‘na dote,
pe’ lei quarsiasi erba è ‘na pietanza,
bona pe’ fà godè er gusto e la panza.Pe’ lei cucinà er cardo è ‘na burletta.
Ero sicuro d’avè visto giusto,
defatti m’ha mannato ‘sta ricetta,
bella a vedesse, spettacolare ar gusto.L’ingredienti de ‘sta ricetta quà,
sò quasi tutti in ciessea.Pijate er cardo e lo tajate a fette,
poi lo lessate cò succo de limone.Pazzienza, quasi un’ora ce se mette.
Cò l’ingredienti che do in concrusione,
fate l’impasto.Poi viè la cipolla,
sia bella rosolata, che ‘n s’ammolla.Mo stennete l’impasto co le mano.
Cipolla sotto, poi patate a fette
e noci triturate grossolano,
er cardo a ricoprì, poi ce se mette.In forno a centottanta un quarto d’ora,
poi tiri fora, prima che s’endora.Dai ‘na spruzzata de pane grattato,
un artro quarto e sta sotto li denti,
lo poi sfornà e fà godè er palato.De seguito ve dico l’ingredienti.
Lo faccio in prosa che me sò stufato,
sinnò me viene troppo compricato.15/11/2020
Carlo RenziL’ingredienti de l’impasto:
– 230 grammi de farina
– 80 grammi de vino bianco
– 70 grammi de ojo d’oliva.
Come se fa:
Facile, ammischiate tutto quanto, fate ‘na palla, stennete, cò le dita, su ‘na teja de 26 centimetri de diametro.
Ingredienti der ripieno:
– ‘Na cipolla granne
– un cardo
– tre patate
– er succo de mezzo limone
– 10 noci
– pane grattato
– sale.
Claudia!
Come sempre ti leggo tutto d’un fiato e amo davvero tanto il modo in cui arrivi a raccontare la ricetta… tutti quei meravigliosi dettagli, le immagini che delinei del territorio che abiti, io sento quanto ci sei legata e quanta dedizione gli riservi.
Il solstizio si avvicina… in questi giorni di buio ti auguro il meglio!
Sara
Sara, ciao!
È sempre una gioia quando passi di qui, e ti ringrazio delle belle parole che sempre mi riservi, davvero <3.
Anche io seguo il tuo lavoro, le tue creazioni sono splendide, sempre di più, come anche il modo in cui le racconti. Anche io ti auguro tante cose belle!!
P.S: Lettori che non conoscete ancora il lavoro di Sara: il suo progetto si chiama pompomlifestyle, qui trovate il suo etsy shop!
Ma sai che è proprio una bella idea questa della torta salata con i cardi?! Mi piace anche il disegno che hai creato che rimanda al ritorno del sole a al solstizio. Da noi non sono ancora pronti e dubito di riuscire a trovare la varietà che usi tu, però mi segno la ricetta!
Ciao Daria! Grazie <3
Vanno benissimo tutti i cardi, anche se non sono gobbi; da provare anche con le coste del mariano selvatico!
Cara Claudia sono un’amica del tuo caro zio…avete tanto in comune, siete legati dalla passione per la terra e per la penna e allora che arte sia nel palato, nella pancia, nella penna, sulla carta e nel cuore
Cara Sara, che belle parole, grazie. Sì, a quanto pare condividiamo molto, seppur con declinazioni diverse: poesia per lui e prosa per me, orto per lui ed erbe selvatiche per me, che, a pensarci ora, in ognuno sembrano esprimere l’unione degli opposti, di ordine e caos :). Sei la benvenuta quando vuoi, grazie ancora di aver lasciato un pensiero!
Molto buona, però l’impasto ci ha messo molto di più a cuocere (20 minuti in più circa).
Ciao Sabi, grazie mille del riscontro!
In effetti hai ragione e mi scuso di averti fuorviata: purtroppo il mio forno è un vero schifo, cuoce tutto troppo e troppo in fretta, anche se abbasso la temperatura. Rispetto a ricette che sperimento cotte in altri forni, ci metto la metà del tempo e a volte anche meno nel mio, e allo stesso modo dovrei specificare nella ricetta che i miei tempi di cottura sono poco attendibili. Provvedo a correggere l’articolo, ma intanto sono contenta che ti sia piaciuta la torta salata :).
Beh non è stato nulla di grave, l’ho lasciata cuocere ancora un po’. In realtà non avevo la farina di segale e ne ho usata una classica, mi è venuto il dubbio che forse quella di segale assorbe più acqua , quindi il mio impasto era meno asciutto? Farò senz’altro altri test 😉
Credo sia più che altro una questione di cottura, quando dico che il mio forno fa schifo non esagero!!