E finalmente, dopo aver rinviato per anni al successivo inverno, ho preparato i miei primi crauti autoprodotti.
Sono davvero brava a procrastinare le cose semplici, e questo ormai l’ho capito bene, ma in questo contesto c’è da aggiungere che sono stata a lungo intimorita dalla fermentazione, temendo muffe, batteri patogeni, insuccessi e intossicazioni. In realtà, ho scoperto leggendo e sperimentando, è molto più rischioso mettere sott’olio delle melanzane o mangiare un pesto rimasto aperto in frigo da troppo tempo.
Tuttora il mio approccio resta limitato a poche esperienze, ad aver accudito per qualche tempo una coltura di kombucha e una di kefir d’acqua, che però proprio non riesco a bere con piacere (personalmente durante il giorno bevo volentieri solo acqua e qualche tisana, per poi passare allegramente agli alcolici prima di cena), a coccolare una pasta madre, che di tanto in tanto rinnovo facendomela passare da chi la usa più spesso di noi, a produrre il mio yogurt, un chilo ogni 4-5 giorni, per le nostre colazioni. In passato ho messo delle oliva in salamoia e preparato qualche birra usando i kit già pronti, ma niente di più. Che occhei, forse in generale è un approccio più approfondito della media, ma per me non sufficiente a dire che di fermentazioni me ne intenda minimamente.
Questa cosa di pressare la verdura in un vasetto e pensare che sarebbe andato tutto bene non mi entrava tanto in testa, ma è diverso tempo che ci voglio provare. Poi dopo aver assaggiato, lo scorso anno, quella meraviglia di crauti di Nicolas Arduini, che ho già citato a inizio febbraio nel mio articolo a proposito delle tisane, mi sono detta che basta, bisognava ci provassi pure io. Il manuale del maestro fermentatore Sandor Katz lo avevo leggiucchiato senza troppa convinzione qualche anno prima, ma se ne stava lì con la sua copertina arancio acceso a dirmi che mi avrebbe dato una mano, al momento buono. Il tempo di procrastinare ancora un pochetto ed eccomi, in una fredda domenica di metà gennaio, ad affettare grossi cavoli cappucci con la mia piccola ma fedele mandolina, entusiasta all’idea di gustare nel giro di qualche settimana i miei crauti autoprodotti, più abbordabili di un buon barattolo artigianale prodotto da altri e, speravo, altrettanto buoni.
È stato proprio il freddo a suggerirmi che fosse il momento giusto, il termostato che la mattina segnava 15 gradi e qualcosa, e che la sera, nonostante il calore ingannevole del camino acceso, non superava la scala dei 18. Fermentare quando fa freddo è più sicuro, così ho sempre saputo. La fermentazione è lenta, più equilibrata e controllabile, rispetto alla velocità con cui procede a temperature più elevate. A parte il congelamento delle dita nel tagliare le verdure e soprattutto nel massaggiarle col sale (oh, non è che non accenda i termosifoni, ma lo faccio il giusto, e comunque in campagna fa sempre un po’ più freddo), le mie belle cuccume d’acciaio piene di cavoli affettati sottili mi hanno dato già una gran soddisfazione. Ancora di più me ne ha data l’osservare che, giorno dopo giorno, tutto filava liscio: le prime bollicine della CO2 che veniva liberata nel processo, l’odore che si faceva via via più intenso senza mai diventare sgradevole, l’assenza di muffe e di qualsiasi altro segnale che qualcosa stesse andando storto.
Non ho riletto il manuale di Sandor Katz prima di buttarmi nell’impresa, se non la breve parte sulla preparazione dei crauti, ma nell’osservare i miei progressi ho ripreso a leggerne qualche pezzetto ogni giorno e a progettare nuove sperimentazioni (da procrastinare il più possibile, ovviamente).
E il maestro, devo dire, mette davvero tanta tranquillità. Nella maggior parte dei casi pesi e misure precise non sono essenziali, il sale da aggiungere non ha per forza una percentuale fissa, il taglio corretto è opinabile, contenitori e attrezzi sterili non sono necessari, basta una buona igiene di base, e se si forma qualche muffa che male fa, basta toglierla e mangiare quanto di delizioso è rimasto sotto, ben protetto dall’acidità della preparazione. Quando poi ho letto che anticamente si fermentavano gli alimenti, tra cui le verdure, addirittura in fosse scavate nella terra, foderate con foglie e rami (in alcuni ritrovamenti molto datati sono stati valutati gli alimenti contenuti nelle fosse ancora commestibili), o che anche, senza arrivare a tanto, ci sono tantissimi fermentatori esperti che non si danno pena di strati di muffa sulla superficie dei loro fermentati, mi sono messa proprio l’anima in pace. I miei crauti, al sicuro in ambiente anaerobico nel loro liquido acido, sarebbero stati squisiti e nutrienti.
E sì, lo devo dire, sono buonissimi. E ovviamente mi ritrovo a chiedermi perché non ho sperimentato prima, visto anche il mio eterno amore per sua maestà il cavolo cappuccio, per me il più buono tra tutti i cavoli, sovrano indiscusso delle mie pressoché quotidiane insalate invernali e fedele compagno anche nel momento più buio degli orti contadini, quello del ricambio colturale tra inverno e primavera, che sta giustappunto iniziando ora. Mai più senza crauti, nel mio frigo, e spero che la mia atavica pigrizia non mi ostacoli in questo proposito. Il corpo di certo non lo fa: i cavoli fermentati sono tra quegli alimenti che sento davvero farmi bene quando li mangio, una forchettata dopo l’altra. Non smetterei mai.
Ho fermentato un grosso cavolo bianco e un ancor più grosso cavolo rosso. Li ha coltivati Poggio di Camporbiano, che consegna due volte a settimana nella bottega in cui lavoro, e ho potuto utilizzarli freschissimi di raccolto. Avevo letto qua e là che il sale andasse aggiunto in una proporzione del 3% rispetto al peso delle verdure, ma il buon Sandor consiglia di salare a piacere, come si salerebbe una qualsiasi insalata, secondo il proprio gusto personale. No ansia, no calcoli. Per amor di sperimentazione ho pesato il sale al 3% per entrambe le preparazioni, che ho tenuto separate per colore, usando poi tutto il sale calcolato per il cavolo bianco e aggiungendolo invece a mano in quello rosso, fermandomi quando secondo me era abbastanza, in modo da valutare la differenza tra i due processi a fine fermentazione. Nell’assaggio preliminare prima di pressare il cavolo nei vasi mi è sembrato troppo salato il bianco, ma passate le settimane necessarie non ho sentito troppo fastidio nel grado di sapidità, anche se lo trovo appena sopra il livello giusto per il mio palato. Il rosso l’ho trovato perfetto.
Per ognuno dei cavoli ho ricavato due grossi vasi, quindi quattro in totale. Ne ho lasciato uno per tipo al naturale, mentre ho aromatizzato i restanti: curcuma per il cavolo bianco, cumino per il rosso.
La parte più fastidiosa di tutto il processo? Ovviamente la mandolina. Mi piacerebbe moltissimo avere una di quelle tavole/mandolina che si vedono nei video o nelle foto delle piccole e grandi aziende che producono crauti, perché è uno strumento che, seppur indispensabile e di uso quasi quotidiano nella mia cucina a prescindere da questa preparazione, non utilizzo con grande piacere. Per non parlare dei tagli innumerevoli che mi sono autoinflitta negli anni (sempre meno, devo dire). Però vabbè, affettare montagne di cavoli una volta al mese si può anche fare. Un po’ fastidiosa anche la gestione dello spazio in una cucina piccola come la mia, con questi vasi che viaggiano da una parte all’altra dal piano di lavoro a quello del lavandino non vedendo l’ora di schiaffarli in frigo. Durate la fermentazione, poi, soprattutto nei primi giorni, il liquido tende e debordare fuori dal vaso, che per quanto riguarda il cavolo rosso vuole dire chiazze blu-viola qua e là da asciugare spesso, che macchiano pure i piani in fòrmica: molto meglio tenerli sul piano d’acciaio del lavandino.
Mi sono inventata dei pressini improvvisati per tenere le verdure ben coperte dal liquido: ho usato delle vecchie cicerchie secche chiuse in un sacchetto di plastica per alimenti per i bianchi, mentre per i rossi ho provato a usare il grosso torsolo del cavolo stesso, sagomato in modo che facesse pressione sulle verdure alla chiusura del coperchio. L’ho insacchettato pure quello, per timore delle muffe, che vabbè che si tolgono, però se proprio non si formano sono più contenta. Cercherò di procurami del pressini fatti appposta, più comodi, o qualcuno di quei pesi di vetro spessi pensati per le fermentazioni.
Perché i pressini? Perché è essenziale che i cavoli, o qualsiasi verdura lattofermentata, se ne stia bella pressata in assenza di ossigeno nel proprio liquido, o in una salamoia preparata apposta per tenerli coperti se sono verdure che di liquido non ne tirano fuori a sufficienza, così da assicurare una fermentazione sicura, zeppa di batteri buoni ed esente da patogeni. Già perché i batteri molto spesso sono nostri amici, al contrario di quanto l’ossessione per l’igiene dell’epoca moderna vorrebbe portarci a credere. Igiene che è importantissima ovviamente, e che nei secoli, man mano che veniva scoperto che delle semplici pratiche potevano evitare diverse malattie e problematiche sanitarie, ha salvato molte vite (come il lavaggio delle mani in ambito medico-chirurgico, una volta sconosciuto), ma che non deve farci dimenticare che siamo fatti anche di batteri, che la vita stessa si regge, tra le altre cose, su un equilibrio batterico, a partire dal suolo, che senza il loro lavoro di degradazione e trasformazione non saremmo qui. E il discorso sarebbe ancora tanto lungo, ma mi limito a dire che i crauti si ottengono proprio grazie al lavoro dei batteri, che ne modificano struttura e caratteristiche perché, invece di decomporsi, si conservino nel tempo, insieme ai loro nutrienti, che spesso vengono anche incrementati e migliorati, e a molte altre sostanze interessanti e benefiche che si sviluppano nella fermentazione, come le colture vive probiotiche.
Fare periodicamente i crauti in casa ha il vantaggio di poter evitare la pastorizzazione, immancabile nella produzione di quelli industriali, conservando così tanti nutrienti che vengono distrutti col calore. Anche il sapore è ovviamente un’altra cosa: se la vostra esperienza riguardo ai crauti si limita a quelli in scatola, si può dire non conosciate davvero i crauti :). Preparateli e assaggiateli, e se dopo il solo assaggio di quelli industriali vi eravate convinti che non vi piacessero potreste ricredervi.
Non che io abbia mai consumato crauti in abbondanza nella mia vita finora, né industriali né artigianali: noi mediterranei abbiamo sempre avuto la fortuna di avere a disposizione tanto cibo fresco, in ogni stagione, al contrario dei popoli nordici che hanno dovuto usare le tecniche fermentative molto più di noi, per approfittare dei frutti della stagione buona anche durante quella più povera. Però ecco, una volta scoperti mi è venuta voglia di non farne più a meno.
Vi lascio la ricetta base qui sotto, ma prima condivido qualche altro dettaglio preliminare che ho imparato nel processo:
- Più massaggiate il cavolo col sale, meglio è. Andate avanti almeno una decina di minuti.
- Come consigliato nel manuale di Sandor Katz, assaggiate spesso e decidete quando il sapore vi soddisfa. C’è chi preferisce fermentazioni molto brevi, di pochi giorni, chi molto lunghe, anche oltre un mese. Io ho iniziato a mangiare il primo vasetto dopo due settimane e mezzo, ma ho lasciato fermentare gli altri per sentire come sarebbe ancora cambiato man mano il sapore. Mi piacciono ancora di più dopo quattro settimane, momento in cui ho messo tutto in frigo.
- Sempre nell’ottica zero paranoia, Sandor consiglia di reintegrare il liquido, che man mano potrebbe uscire dal vaso o evaporare, con semplice acqua naturale. C’è chi intima di riempirli sempre con salamoia, quindi un’acqua con dentro sale sciolto sempre al 3%, ma quanto è più rilassante così? L’importante è che le verdure restino coperte. C’è chi fermenta addirittura senza sale. Don’t worry.
- Sempre su consiglio dell’esperto, meglio travasare i crauti in più vasetti piccoli, per la conservazione in frigo, che tenere vasoni grandi che man mano si svuotano in favore di una maggior presenza di ossigeno nel vaso. L’ossigeno favorisce lo sviluppo di muffe, quindi meno ce ne sta e meglio è. Se poi siete una famiglia numerosa che svuota il vaso in tre giorni vabbè, non è necessario :).
- Potete mischiare i cavoli con altre verdure, aggiungere delle erbette spontanee (cosa che vorrei sperimentare presto), delle aromatiche, qualche radice (proverò col cardo mariano, che adoro), spezie e altro. In quelli di Nicolas che ho assaggiato tempo fa, per fare un esempio, c’era poca carota tagliata a julienne, semi di fieno greco e curcuma. Deliziosi.
- In questa mia prima sperimentazione vince la versione bianca con curcuma (mentre nell’uso in insalata preferisco il cavolo rosso), ma adoro anche le preparazioni al naturale, senza aggiunta di spezie. Non ho dosi precise da darvi per le aromatizzazioni, sono andata un po’ a occhio: la curcuma nei bianchi era bilanciata, col cumino nei rossi avrei dovuto osare di più, si sente poco.
- Una precisazione, per finire. Lavorando, tra le altre cose, in una bottega alimentare, che gestisce anche un orto in CSA, so che c’è una gran confusione sulle varie identità dei cavoli. Alcuni chiamano verza il cavolo cappuccio, ma no, qui stiamo parlando proprio del cavolo cappuccio, anche se certamente pure la verza è buona fermentata (nel kimchi, un fermentato coreano, si usa ad esempio il cavolo cinese, che ha foglie bollose come quelle della verza). Per capirci la verza è questa, il cappuccio è questo, che esiste anche in versione blu-viola.
Di seguito la ricetta, subito sotto qualche altra informazioni utile e anche delle notizie sui miei prossimi corsi :).
// Crauti fatti in casa //
°° Ingredienti °°
- cavolo cappuccio, il più fresco possibile
- sale marino integrale
Altre informazioni utili
Domenica 20 febbraio c’è stato il primo corso di riconoscimento delle erbe selvatiche della stagione e sono davvero contenta di essere ripartita anche quest’anno! Il gruppo è stato numeroso e partecipe, Chiusure accogliente e generosa come sempre.
Ci sono già due nuovi appuntamenti in calendario, domenica 6 marzo sempre nelle Crete Senesi (già quasi pieno) e sabato 26 marzo a Firenze. Ne stanno per uscire altri due, uno credo sabato 19 marzo, se non domenica 20, a Bucine, in basso Valdarno, l’altro il 3 aprile sulla Costa degli Etruschi, vicino Livorno. Se tutto va bene, ci sarà anche una data il 10 aprile a Castelnuovo Berardenga, a sud di Siena. Insomma, la primavera sta arrivando e sono in fermento peggio dei miei cavoli :). Seguite la pagina dei corsi, instagram e facebook per aggiornamenti! Ma se vi iscrivete alla newsletter dei corsi pure meglio ;).
Tornando ai fermentati quelli veri: inutile dire che Il grande libro della fermentazione di Sandor Katz è consigliatissimo. Non ho però grandi termini di paragone, se non Il manuale dei cibi fermentati di Michela Trevisan, ben fatto ma meno approfondito. Vengono trattati tutti i fermentati possibili, dai più semplici ai più complessi, con indicazioni per produrli autonomamente, e c’è una bella introduzione che, come vi dicevo, vi toglie un bel po’ di preconcetti e paranoie sulla sicurezza dei fermentati, oltre a trattare diverse sfaccettature dell’argomento, tra cui l’aspetto nutrizionale. Mi piace molto il suo approccio, lontano da un certo sensazionalismo che tende a trasformare i singoli alimenti salutari in una panacea: basta dire le cose come stanno, e dare ad ogni elemento il suo ruolo in un equilibrio complesso, e lui lo fa.
Prima ancora di comprare il suo manuale, avevo letto di Sandor Katz in Cotto di Michael Pollan, nella parte dedicata alla fermentazione. E già ne ero rimasta conquistata, con quella sua rilassatezza nel trattare l’argomento e nell’evitare le regole ferree, facendo capire che fermentazione e smania di controllo sono piuttosto in antitesi, come accade in ogni processo vitale. Di Pollan, vabbè, sono completamente innamorata dalla prima riga letta di La botanica del desiderio, a cui è seguita tutta la bibliografia tradotta. Se non avete mai letto Pollan vi prego, rimediate. Almeno la trilogia sul cibo (In difesa del cibo, Il dilemma dell’Onnivoro e il già citato Cotto), che se siete qui magari vi può interessare. O i libri su botanica e giardino. E se qualcuno che legge lavora all’Adelphi, ve ne prego, mi dite quando verrà tradotto This is your mind on plants, che non sopporto più l’attesa?!
Non ho mai seguito un corso di fermentazione, ma negli ultimi anni sono spuntati come funghi. Non ne conosco molti, ma ho lisciato un corso con Carlo Nessler, a cui avevo la possibilità di partecipare e poi invece no, che mi dicono sia bravissimo (e che i fermentati li produce e li vende, anche). E poi c’è la supercompetente Annalisa Malerba, che come me fa pure divulgazione su riconoscimento e utilizzi delle erbe, che fa spesso corsi sulla fermentazione, tipo questo che però è dello scorso anno.
I buoni fermentati comunque c’è anche chi li produce artigianalmente e li vende! Non potrei mai arrivare ad esempio a fare miso e salse come lo shoyu, che non ne avrei mai la pazienza (le mie passioni principali sono altre), ma c’è Dario di Lolmaia, per esempio ;). Vi ho raccontato di lui in un articolo di diversi anni fa, cercatelo con suo banco alla Fierucola!
Cara Claudiache piacere sentirti parlare di questo portento e mistero dei lattofermentati. Anch’io ho prodotto qualche vasetto a gennaio di ortaggi misti ( cappuccio bianco, carote , finocchi). Si consigliano vasetti di media grandezza da 360gr. Pareti lisce, NO quelli della Birmioli 4 stagioni. Io devo ancora aprirli perché voglio aspettare fino a fine marzo ma credo che uno lo proverò in questi giorni come test. Io ho messo una vaschetta con carta sotto per lasciarli “spurgare”e così cambi la carta all’occorrenza. Quando non esce più liquido comincia la maturazione. Li ho provati da un’amica che mi ha insegnato il procedimento e li ha serviti su pane tostato e hummus di ceci , aperitivo/ spuntino ottimo. Infine prima di richiudere il vasetto con il tappo e aver rabboccato con il liquido formatosi dallo strizzamento degli ortaggi (INVERNALI) si possono fare nastri di carote a incrocio o le foglie più grandi del cavolo capuccio a piacere una foglia di alloro. anch’io ho il libro di Michela Trevisan. So che si usa questo metodo soprattutto per le verdure dell’inverno, no zucchine perché troppo acquose. Comunque provare provare provare!!! Un abbraccio e coccole a Urano.
Ciao Caterina! È un piacere sentire te, grazie mille dei consigli aggiuntivi, saranno utili a tutti :).
La vaschetta sotto è un’ottima idea, come mai non ci ho pensato?!
Grazie di nuovo e abbraccio a te. La coccola a Urano, eh, madonna come gliela farei! Ma purtroppo ci ha lasciati lo scorso luglio (ne ho scritto un po’ in sordina qui, nel clima ancora vacanziero), l’estate e l’autunno sono stati davvero molto tristi, e lo è anche un bel po’ questo inverno. Passerà, prima o poi :).
I lattofermentati fanno bene bene bene per il macrobiota. Vengono anche associati a elisir di lunga vita. Il kimchi è rappresentativo i coreani lo mangiano a ogni pasto tre volte al dì (così dicono) e se sta bene l’intestino sta bene la testa.