Li capisco sempre di più i contadini, quando si prendono gioco di noi neorurali cittadini, calati in campagna con l’infuriante idealismo del neofita. Appartengo (appartenevo?) pure io a quella genia: gente che di fronte a un bell’albero si sdilinquisce fino ad abbracciarlo teneramente, oppure, sorpresa all’imbrunire da un concertino di storni nella chioma di un ciliegio, si ferma in estatico ascolto. Quando a un contadino verrebbe voglia di cacciarli via a schioppettate.
Pia Pera, Apprendista di Felicità, Ponte alle Grazie, 2019.
Appartengo (appartenevo?) pure io a quella genia, anche se certamente meno di Pia Pera, che un contatto con la terra ce l’ha avuto certo più forte di quanto l’abbia avuto io, almeno finora. Le mani di terra non me le sono sporcate poi così tanto, per lo meno non nel mio giardino quanto in pascoli, incolti e boschi, raccogliendo erbe, fiori e radici.
Vivo in campagna ormai da 9 anni, dopo averne passati 28 da cittadina, con incursioni estive nelle alte campagne natie dei nonni. Non posso dire di non amare ancora, e molto, la città, ma farei di certo molta fatica ora a vivere lontana da prati e colline, ad escluderli dal mio quotidiano. Arrivare qui è stato un caso e non una scelta consapevole, ma mi rendo conto, per come mi sento ora, che in un modo o in un altro non poteva che andare così. E sì, posso dirmi anche io, ancora, una neorurale cittadina, mi sdilinquisco nelle maniere più varie di fronte alle semplici manifestazioni della natura, ma ho imparato tante cose da quando questo percorso è iniziato, ripartendo in qualche modo dalle fragole di fine giugno gustate, appena colte dalla pianta, nella piccola vigna di nonno.
Ho imparato ad accatastare quintali di legna e ad accendere, non senza gli iniziali sbrocchi del neofita, un fuoco nel camino, sfruttando i legnetti secchi raccolti nel bosco, le cortecce e gli steli di lavanda della stagione passata.
Ho imparato a tenere lontane le formiche in estate e a convivere con gli utilissimi ragni in un buon equilibrio domestico, tenuto in essere anche dai gechi, adorati, che abbiano voglia di accasarsi per il tempo che gli serve.
Ho imparato a non sedermi tra l’erba incolta in primavera, per non finire preda di animalini meno amichevoli (in quei momenti, non lo nego, rimpiango le belle e civili ville romane), e a prevedere quando un nuovo sfalcio libererà i campi durante i mesi estivi.
Ho imparato quanto tempo passa dalla costruzione di un nido d’argilla e rametti ai primi voli delle rondini, e che il cinguettio allegro di quelle di campagna è diverso dal gioioso stridìre di quelle di città.
Ho imparato a guidare su strade buie e piene di curve, tenendone d’occhio i bordi e tutti gli esseri che li popolano, per i quali quel bordo equivale alle mura di casa, dalle ranocchie, ai caprioli, a cinghiali, istrici, volpi e tassi.
Ho imparato, ahimé, a riconoscere il rossiccio mortifero dei diserbanti e a distinguerne gli effetti dalla secchezza naturale dell’erba estiva.
Ho imparato quando tenermi lontana dai boschi e in quali giorni riecheggiano gli spari dei fucili. Non ho ancora imparato, invece, a sopportare la crudeltà di certi umani, i cani tenuti in gabbie strette e trascurate, i racconti di trappole e polpette avvelenate.
Ho imparato cosa comporta una gelata in aprile, quando i fiori sono già ben sviluppati sui rami e le foglie nuove stanno già raccogliendo i raggi del sole. Ho imparato, nel mio piccolo, cosa voglia dire rusticità, chi sarà in grado di sopportare quel trauma, chi invece non riuscirà a dare frutti.
Ho imparato ad amare le carote selvatiche, la loro eleganza discreta, dando un’identità a quelle distese di fiori bianchi che popolavano le mie estati di bambina e che trovavo così banali e poco attraenti (come avrò mai fatto, poi?).
Ho imparato a conoscere tante altre piante, quelle che sanno badare a sé stesse senza l’intervento mio e di nessun altro, ad intuirne abitudini e relazioni, a comprenderne il forte e delicato equilibrio.
Ho imparato a raccoglierle ed utilizzarle, ho imparato cosa lasciare a terra, per tossicità o per fragilità; ho imparato, e con gioia, che non finirò mai di imparare.
Ho imparato da dove arriva quel profumo che mi inebria nelle sere d’estate.
Ho imparato a distinguere la paglia dal fieno.
Le fettuccine paglia e fieno le ho sempre amate moltissimo. Quel verde a spezzare l’onnipresente giallo della pasta, fresca o secca che fosse, mi ha sempre messo allegria. Se tipicamente sono gli spinaci a colorare gli impasti, le alternative non mancano di certo, soprattutto se le cerchiamo tra le piante selvatiche, che ce ne possono fornire in ogni stagione. L’ortica in primavera o in autunno e la parietaria in inverno, per fare degli esempi; in estate ci potrà venire in aiuto l’amaranto, infestante e diffusissimo, o meglio ancora, perché il verde sarà più brillante, il farinello, che con l’amaranto condivide più o meno gli stessi ambienti, che poi sono quelli che frequentiamo pure noi. Facilissimo trovarli ai margini di orti, campi coltivati, poderi e terreni smossi, come anche su marciapiedi, praticelli spartitraffico e aiuole di città (anche se lì, purtroppo, la raccolta diventa poco consigliabile). Sono piante fortissime, pioniere, di ben poche esigenze. Il farinello che ho usato per queste fettuccine, ad esempio, cresceva su un cumulo di pietrisco, depositato un annetto fa al limitare del bosco dai nuovi proprietari dei campi dietro casa, residuo dello stradello che hanno costruito per il passaggio dei trattori. Cumulo che è risultato graditissimo anche all’erba viperina (Echium vulgare), che prospera in ciuffi enormi su ogni lato del mucchio (e che mi attende in congelatore già cotta e strizzata per preparare qualche buon ripieno per ravioli o torte salate).
Il farinello (Chenopodium album) è semplice da riconoscere: chiamato anche spinacio selvatico, chenopodio, farinaccio, fa parte della famiglia delle chenopodiacee, la stessa di spinaci e bietole. Se conoscete i fiori di queste verdure a foglia, magari perché le coltivate nel vostro orto, non vi sarà difficile trovare delle similitudini, scovandole a bordo strada, con le infiorescenze del farinello, delle specie di pannochiette grumolose color bianco-verde, screziate a volte di magenta. Il magenta tinge spesso anche il fusto, nelle piante mature, tra le scanalature tracciate nel verde.
Ciò che più ci interessa però sono le foglie prima della fioritura: verde pallido, con la pagina inferiore biancastra, e soprattutto, caratteristica che vi permette di riconoscere il farinello tra le altre piante simili, una specie di farina granulosa sulle foglie apicali, riunite in cimette. È visibile già ad occhio nudo, ma soprattutto si percepisce nettamente strofinando le foglie con le dita.
Importante distinguerla dall’erba morella (Solanun nigrum), tossica, che, prima della fioritura, può essere confusa molto facilmente con la pianta che ci interessa. La morella però non ha quella farina sulle foglie apicali, ed ha foglie di un verde più scuro, tendente al bosco, con venature più pronunciate.
Attenzione a dove cogliete il farinello: come l’amaranto e come l’ortica, tende ad accumulare nitrati, non va quindi colta vicino a mucchi di letame, ruscelli inquinati, campi trattati con fertilizzanti di sintesi e luoghi non salubri.
Attenzione poi a consumarlo se soffrite di calcoli renali, che la ricchezza di acido ossalico del farinello, caratteristica che condivide con gli spinaci, potrebbe darvi problemi in caso di consumo eccessivo.
Che usiate i classici spinaci o un’erbetta di campo, la preparazione di questa pasta presenta un’altra particolarità: al posto delle uova, a dare elasticità, ho usato della farina di semi di lino, che mescolata con l’acqua libera le mucillagini, utili a legare l’impasto. Il sapore non risente della sostituzione e la tenuta della pasta è ottima, anche usando, come nel mio caso, farine di grani antichi macinate a pietra e tirando la pasta sottile, arrivando alla tacca numero 4 dell’Imperia. Le dosi per il composto di farina di lino e acqua le ho tratte da questo post del blog Bianco Farina.
Io ho ricavato la farina direttamente dai semi di lino interi, tritandoli con un macinacaffè; è sempre la scelta migliore, per evitare l’ossidazione e il deterioramento delle sostanze che contengono. Abbiate però cura di macinarli finemente: la prima volta che ho preparato questa pasta l’ho fatto un po’ di fretta, e qualche seme è rimasto intero, che non è l’ideale per tirare una sfoglia. Sempre un po’ di fretta, ho usato le erbette tritate al coltello (in quel caso l’amaranto) per mescolarle all’impasto, ma è meglio frullarle, col gel di semi di lino, per renderle più omogenee. La fretta in cucina non paga ;).
Il condimento che ho usato è dei più semplici: dei dolcissimi pomodori datterini, un buon aglio tritato, qualche foglia di basilico, pepe nero macinato. Non avevo bisogno di altro.
A breve manderò la prima newsletter della nuova stagione di corsi. Non siete ancora iscritti? Cliccate nei box che trovate in giro per il sito, nella colonna laterale o in basso nel footer. Intanto ho aggiornato la pagina dei corsi qui sul sito: oltre all’uscita del 22 settembre ad Archeologia Arborea, c’è un appuntamento il 15 settembre ad Asciano, nel pomeriggio, per un corso di riconoscimento delle erbe spontanee. Vi anticipo poi che il 28 mattina sarò allo Slow Travel Fest di Monteriggioni (SI), ma sto aspettando ancora il programma completo per darvi notizie precise. Intanto, se siete in zona Lucca-Versilia, date un occhio al programma del Festival che inizierà i primi di settembre a Camaiore.
Vi lascio alla ricetta, a presto!
// Fettuccine paglia e fieno ai semi di lino e farinello //
°° Ingredienti °°
- 200 grammi di farina di grano duro Senatore Cappelli tipo 1
- 100 grammi di farina di grani teneri antichi tipo 1 (io ho usato il mix del Pereto)
- 3 cucchiai di semi di lino
- 9 cucchiai di acqua
- 60 grammi di farinello (o altra verdura a foglia verde) cotto e strizzato
- 1/2 cucchiaino di curcuma
- 4-5 manciate di pomodori datterini
- 1-2 spicchi d’aglio
- basilico fresco
- 1 pizzico di zucchero di canna integrale
- olio e.v.d’oliva
- pepe nero macinato al momento
- sale marino integrale
Altre informazioni utili
– Il libro che vedete nella foto di apertura, da cui è tratta la citazione di inizio articolo, era tra le mie letture estive. L’ho amato moltissimo, come tutti i libri di Pia Pera, una delle mie autrici preferite, di cui sto leggendo anche, proprio in questi giorni, Il giardino che vorrei. Dopo quest’ultimo, non ce ne saranno altri: li avrò letti tutti, e l’autrice, purtroppo, non ne scriverà più: Apprendista di felicità è un libro postumo, curato da Emanuela Rosa-Clot, direttrice di Gardenia, che racchiude tutti gli articoli scritti per la rivista dal 2010 al 2016. Se ancora non conoscete le sue opere e se amate piante, orto e giardino, i suoi libri ve li consiglio tutti, dal primo all’ultimo!
– Se cercate altre letture a tema cucina naturale, botanica, piante selvatiche e fitoterapia, consapevolezza alimentare, qui sul blog trovate sempre la mia lista dei letti e consigliati, in continuo aggiornamento. Cliccate qui o accedete quando volete alla pagina cliccando sulla voce “Libri” del menù principale.
Ciao Claudia…le riflessioni che hai fatto a inizio post sono meravigliose….mi hanno commosso e rincuorato…anche io ho spesso di questi pensieri e mi sento un po’ sola a preoccuparmi per tante cose…. meno male la natura è quasi sempre capace di riparare ai nostri danni estendere un balsamo nei nostri cuori….per gli animali che direttamente o indirettamente facciamo soffrire purtroppo non riesco a trovare consolazione…ma voglio chiudere questo commento con note positive…fra poco arriverà settembre, con l’aria più frizzantina e i profumi e l’energia che sempre porta con sé …un abbraccio
Grazie per i tuoi pensieri Daniela, per condividerli qui. Sì, settembre è davvero alle porte ora, anche io ho tanta voglia che arrivi!
Un abbraccio a te.
Ciao!
Che meraviglia leggere le tue parole, sono pura poesia che riempiono il cuore.
Grazie di averle condivise.
Grazie Elle, bello sapere arrivino a qualcuno, fin nel profondo. Grazie a te di aver condiviso!
Piace molto anche a me Pia Pera, non ho ancora letto il libro che citi, lo cercherò!
Raccolgo anch’io il farinello nell’orto in questa stagione, perfetto sostituto degli spinaci!
Buona fine estate!
In effetti è uscito da poco, ha sorpreso anche me, l’ho scoperto per caso. Essendo una raccolta di testi scritti per una rivista, mese dopo mese, ha un po’ l’aria di un diario intimo, che procede attraverso le stagioni. Davvero bello, ti piacerà!
Buona fine estate anche a te, cara Daria.