Seduta tra i papaveri, il vento che suona leggero, il canto dell’upupa che fa da base ritmica ai pensieri, prima che dal paese le campane del mezzogiorno disfino il suo incedere cadenzato e un po’ ipnotico. All’orizzonte ancora nuvole in arrivo, cariche di pioggia, addosso ancora una felpa, anche in tarda mattinata. È davvero maggio? I papaveri dicono di sì, ma la pelle si sente ingannata dai colori stagionali.
Da quattro anni ormai maggio è piovoso e insolitamente freddo, ad eccezione del maggio 2020, a soddisfare le aspettative facendosi beffe di tutti noi chiusi in casa, o comunque appena usciti con un piede dalla porta. Seppur per tanti versi irriconoscibile, l’esplosione di vita e di colori forti tipica del cuore della primavera resta fedele alla sua vocazione, celata solo dalle giornate cupe e nuvolose, ma sfacciatamente brillante e carica non appena la luce arriva a esaltare le tinte maggioline nelle giornate migliori, o appena dopo un’acquazzone. Allora maggio pare essere tornato, a pochi giorni dalla sua fine.
Il mio borgo quest’anno è forse più bello che mai, da lontano e dall’interno: non il mare di girasoli di qualche anno fa, non le distese verde brillante del grano che virano verso l’argento al comparire delle spighe giovani, ma, finalmente, il rosso sfacciato dei papaveri, carico e pieno, a coprire il magenta acceso del trifoglio incarnato, di cui ha invaso la semina, ma che si riprende il suo spazio poco lontano, nella seconda metà del campo, dove il suo colore domina quasi indisturbato e altrettanto affascinante. Niente diserbanti nei miei immediati dintorni per una volta, o quasi, e una grande esuberanza delle spontanee, che inducono alla frenata processioni di fotografi e turisti (Già, turisti, sono tornati!). Da un mese dominano la collina, avviandosi ora verso il declino.
Passeggiando ogni giorno in cima a questo mare vermiglio, ho scoperto anche le tinte più tenui di un papavero mai incontrato prima, ben nascosto tra l’abbondanza di Papaver rhoeas, ma facile da notare, per i suoi filamenti blu elettrico: peccato non averlo conosciuto prima, il Papaver hybridum, per poter approfittare in cucina delle sue rosette lucide e carnose, perfette per un’insalata, ma al contempo che gioia aver scoperto ancora una volta qualcosa di nuovo, appena dietro casa, dopo anni.
La natura, specialmente quando non viene eccessivamente disturbata, dà ispirazioni continue, ma è molto che non scrivo qui. Troppo lavoro, troppo da pensare, troppi giri da fare, la calma dello scrivere non è granché di casa in queste settimane. Girovago per lavori, corsi, sopralluoghi, ed è proprio in uno degli ultimi che mi sono ritrovata a salire un po’ più di quota e ad incontrare, dopo tanto tempo, una distesa fiorita di aglio orsino. Ho potuto osservarlo nella Riserva di Pietraporciana, dove ho tenuto un corso molto bello domenica scorsa, per poi cercarlo nei dintorni, che in Riserva non è permesso raccogliere. Avevo tempo per esplorare un po’ anche le pendici più basse dell’Amiata, già che ero finita laggiù, che dalla Riserva fa bella mostra di sé, e non c’è voluto molto, individuata altitudine e luoghi prescelti, per trovarne un’altra macchia. Ho raccolto pochi fiori e qualche foglia dalle poche piante non fiorite, giusto lo stretto necessario per un pesto che finora non avevo mai assaggiato, abituata a raccogliere tra le mie basse colline. Si usano di solito le foglie, è vero, ma basta assaggiare un singolo fiorellino per sentire esplodere in bocca un sapore intenso, tipico di tutti i fiori del genere Allium, che hanno poco da invidiare alle foglie in quanto a intensità gustativa.
Se le foglie sono poche, non mancano in questo momento ortaggi adatti ad avvolgere un pesto nel verde: le fave, ad esempio, che in un pesto sono deliziose, sgranate, appena scottate e poi private dell’involucro esterno.
Potevo non onorare un condimento speciale con una pasta speciale? Il pesto, tradizionalmente, chiama le trofie, che ho preparato da farine semintegrali, mescolando la mix di grani teneri del Podere Pereto con la mix di grani duri di Floriddia, in parti uguali, mescolando così anche due dei progetti più longevi e attivi nella filiera locale dei grani antichi toscani, custodi di biodiversità agricola, di territori e paesaggio. Come mi consigliò diversi anni fa la cuoca della Taverna del Pian delle Mura di Vivo d’Orcia, aggiungere del grano duro a una pasta fresca acqua e farina da vecchie varietà di grano dà più consistenza e tenuta, e non sono in effetti mai rimasta delusa dal risultato.
Come per tutti i tipi di pasta fresca, bisogna acquisire un po’ di manualità anche per questo formato, ma non è così difficile. È importante che l’impasto non sia troppo umido, altrimenti vi si appiccicherà alla spianatoia arricciando le trofie, ed è altrettanto importante non infarinare il piano di legno durante la formatura, che impedirebbe lo scorrimento dell’impasto. Si procede un po’ come per le orecchiette, formando dei cordoncini da dividere a piccoli tocchetti, che vanno poi affusolati e infine strisciati con la parte esterna del palmo sulla spianatoia. Io non sono abbastanza millenial da aver preso confidenza con i video, o piuttosto, oltre a non avere una strumentazione decente, non ho tanto tempo e voglia di farli :). Ma in compenso potete andare su instagram a seguire Pasta Social Club, che se vi piace la pasta fatta in casa vale davvero la pena. Di recente ha pubblicato un piccolo video in cui si vede bene il movimento per le trofie, lo trovate qui. L’ho scoperta da poco, avevo imparato a fare le trofie già anni fa, da una signora pesarese da cui ho abitato qualche settimana, e poi perfezionandomi come potevo, ma mi ha rinfrescato un po’ la memoria e mi ha fatto tornare la voglia di prepararle :). Se non avete instagram vi segnalo anche questo video su youtube.
Non avete tanto tempo per una pasta fresca? Le trofie sono un po’ lunghette da fare, ma uno spaghetto alla chitarra, se avete la chitarra, si fa in un attimo, ed è proprio il formato che ho scelto un paio di giorni dopo per fare fuori l’avanzo di pesto. Se non avete la chitarra abbiatela, è davvero uno dei formati più veloci e facili da fare di pasta fresca, per potervela concedere al posto della secca ogni volta che volete; la mia ricetta la trovate qui, potete prepararla anche all’uovo, se volete, omettendo l’acqua e usando un uovo grande ogni 100 grammi di farina (non di semola).
Occhio alla raccolta dell’aglio orsino: lo stesso vale per tutte le piante selvatiche, bisogna raccogliere sempre e solo ciò che si è certi di conoscere e sempre col massimo rispetto per la pianta e la sua riproduzione. L’Allium ursinum ha diverse piante molto tossiche e potenzialmente mortali che le somigliano, con cui si può fare facilmente confusione prima della fioritura, come il Colchicum autumnale o il Convallaria majalis, il mughetto, entrambe piante anche coltivate come ornamentali. Condividono sovente gli stessi habitat e hanno foglie simili, seppur con differenze percettibili se le si studia un pochino. In fioritura non ci si sbaglia, le piante a quel punto sono davvero diverse. Un indice importante di riconoscimento passa dal naso: solo l’aglio orsino sa di aglio, le sosia tossiche no. Ma studiate prima di raccogliere, in ogni caso :).
E a proposito di studio, l’unica passeggiata di riconoscimento delle erbe spontanee in questo momento è in programma domenica 6 giugno mattina, a Chiusure, tra i calanchi delle Crete Senesi. Non ho ancora programmato altro e probabilmente in estate farò meno uscite, quindi per ora approfittatene e prenotatevi entro venerdì 4 giugno, tutti i dettagli li trovate nella pagina dei corsi qui sul blog o nell’evento facebook. Vedrete programmato anche un corso questo weekend, ma è già al completo…provate a scrivermi però, tengo sempre attiva una lista d’attesa per disdette dell’ultimo secondo!
// Trofie fatte in casa di grani antichi al pesto di fave e aglio orsino //
°° Ingredienti °°
- 200 grammi di farina semintegrale di grani teneri antichi
- 200 grammi di farina semintegrale di grani duri antichi
- un chilo di fave col baccello
- un cucchiaino abbondante di mandorle sgusciate
- 4 fiori di aglio orsino
- 4-5 foglie di aglio orsino (se non ne trovate usate più fiori)
- un cucchiaino abbondante di mandorle sgusciate
- la scorza di un limone e qualche goccia del suo succo
- olio e.v.d’oliva in abbondanza
- sale marino integrale
Altre informazioni utili
Di pesti selvatici ne sono passati già diversi da queste parti, se mi seguite da qualche tempo lo sapete già, se siete nuovi ecco una bella lista (non esaustiva di tutti i pesti, anche non selvatici, presenti sul blog :)):
Patate hasselback con polveri di ortica e peperone e pesto di alliaria
Orecchiette di Timilia al pesto di ortica e dragoncello
Insalata di patate e pomodori con portulaca e pesto selvatico di tarassaco e malva
Farro al pesto di ortica con cavolo nero e petali di topinambur
Pici fatti in casa con pesto di finocchietto selvatico
E pure di pasta fresca ne abbiamo preparata un bel po’, in questi quasi 9 anni di blog! Dalle tagliatelle alle orecchiette, dalle busiate ai ravioli al vapore, dagli gnocchi ai maccheroncini al ferretto e altro ancora. Spulciate nella categoria Pasta fresca e gnocchi per trovare tutte le ricette con relativi condimenti.
Due parole sulla Riserva di Pietraporciana: a parte che è gestita da un gruppo fichissimo di volontari di Legambiente e che ci si mangia al fresco del bosco per tutta l’estate, è un posto davvero speciale: la faggeta, attraverso cui si può camminare tramite un sentiero, prospera a quote più basse rispetto a quelle solite grazie alla protezione di rocce di biocalcarenite, residui di un tempo lontanissimo in cui la Val d’Orcia e le Crete Senesi, fino alle porte del Chianti, erano coperte dal mare. La storia è passata più volte intorno al Rifugio disegnandone i contorni, sia in epoca mezzadrile che in tempi di guerra, diventando un luogo simbolo della Resistenza.
Fateci un giro, se volete potete fermarvi anche a mangiare e dormire a prezzi popolari.
Proprio domenica scorsa alla Riserva, chiacchierando con i gestori dopo il corso, ho scoperto che la Taverna del Pian delle Mura, che ho nominato nell’articolo, ha chiuso definitivamente. Mi è dispiaciuto davvero molto: ho conosciuto Luisa, la cuoca, molti anni fa durante un evento in zona, in cui preparò un’acquacotta di erbe selvatiche, poi ci sono stata a mangiare un paio di volte (troppo poche, ma ho poco da spendere :)), di cui una per un mio compleanno, dove ho trovato ispirazione per i Pici fatti in casa con pesto di finocchietto selvatico. Oltre al fatto di aver perso un ambiente accogliente e bello, con una cucina eccellente, si è perso uno dei posti che hanno davvero fatto della cucina locale e stagionale una linea guida, da sempre, prima che fosse di moda e che tanti perseguissero quella strada di facciata e senza comprenderne la reale importanza. Uno di quei posti che in un’annata balorda per i funghi non cucinava i funghi, pur stando alle pendici dell’Amiata dove i funghi te li aspetti. Grazie alla Taverna, quindi, per aver fatto non solo da mangiare, ma per aver fatto cultura, intorno al cibo e alla sostenibilità legata alla sua produzione.
Come promesso anche qualche spunto sull’uso degli scarti delle fave. Intanto i baccelli li potete mangiare, se sono belli freschi, come vi ho fatto vedere in questa ricetta. La buccia delle singole fave potete riutilizzarla per un brodo, ad esempio una base per la vignarola, o anche per altri piatti. Oppure potete aggiungerle a una vellutata di stagione. È anche tempo di piselli! Qui sul blog vi ho suggerito anni fa come utilizzarne i baccelli svuotati, per delle polpette o per una farina.