Pàcina, il suo vino, i suoi custodi

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La prima volta che sono stata a Pàcina era il 2011. E la prima volta che ho parlato con Giovanna Tiezzi, senza neppure sapere chi fosse e cosa di preciso facesse, non è stato a proposito del suo vino, ma per chiederle se avesse una casa da affittare.

Ero appena approdata col mio compagno e il nostro cane nella provincia di Siena, con l’idea di restarci, e dopo due settimane in quello che avevamo scelto come alloggio temporaneo tra i boschi del comune di Casole d’Elsa, eravamo fuggiti verso la seconda scelta, una casa appena fuori da Castelnuovo Berardenga, che lassù in mezzo ai lupi faceva talmente freddo che non si riuscivano a superare i 16 gradi neppure con camino e riscaldamento accesi in contemporanea. Ed era pure l’anno della grande nevicata di febbraio.
La seconda scelta era a una manciata di passi da Pàcina, dall’altro lato della strada provinciale che corre verso Pianella. Ci piaceva moltissimo, in modo particolare per come il paesaggio si apriva appena fuori dal paese su quella vallata infinita, un susseguirsi di colli puntellati di vecchi poderi a perdita d’occhio e cieli immensi. Ma da lì ce ne saremmo dovuti andare, ché a giugno la nostra casa sarebbe stata destinata agli affitti turistici, e così eccomi da Giovanna, méta della mia ricerca insieme a diversi altri poderi della zona, sperando in un posticino per noi. La casa, però, non l’abbiamo trovata, e siamo finiti una ventina di chilometri più in là.

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Ci sono tornata anni dopo in cerca di un buon vino sfuso per poi finire dai suoi vicini, gli Allegretti, che anche questa volta Giovanna mi ha risposto di no. Ma Giovanna, in qualche modo, ti dice di sì anche quando ti dice di no. Lo dicono il suo sguardo e il suo sorriso, che accolgono anche quando non possono esaudire concretamente una richiesta.

E poi conoscendo in modo più approfondito il mio territorio adottivo ho capito chi fosse Giovanna e cosa di preciso facesse, insieme a suo marito Stefano Borsa, li ho visti comparire in Resistenza Naturale di Jonathan Nossiter, un documentario che ho amato tanto quanto il precedente Mondovino, e ho iniziato successivamente a interagirci di più quando ho iniziato a lavorare da MondoMangione, dove a scaffale ci sono pure le loro bottiglie, nella selezione di vini naturali della bottega. Anzi, se non ricordo male ce le ho volute io quelle bottiglie.
Ho scoperto così che sguardo e sorriso, anni fa, non mentivano, non erano di facciata nemmeno un po’. E che Pàcina tutta è sinonimo di accoglienza ed energia buona, che ho ritrovato in Stefano e poi in Maria e Carlo, la nuova generazione.

Pàcina è un nome particolare, che già da solo racconta qualcosa delle origini del luogo e della sua vocazione. È il nome dell’azienda ma anche del posto in cui nasce; l’accento è sulla prima sillaba, anche se a tutti quelli che vedono il cartello stradale della frazione per la prima volta, da bravi latini, viene da metterlo sulla seconda, cosa che ovviamente ho fatto anche io. Il nome però è etrusco, per questo il suono è diverso, e identifica la divinità del vino, quello che per i romani era Bacco. Il territorio di Castelnuovo Berardenga era vocato per l’agricoltura già in epoche lontanissime, e per il vino, che gli etruschi producevano come espressione di gioia e di buon vivere. La stessa scelta è quella che viene portata avanti oggi nello stesso luogo, con passione e con rispetto.

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La Tenuta di Pàcina nasce nel decimo secolo come convento, e venne acquistata dal trisnonno di Giovanna per farne una fattoria, tramandata per cinque generazioni fino a lei.
In queste terre la mezzadria è durata più a lungo che altrove, fino agli anni ’60. La terra era produttiva, forte di una grande biodiversità naturale, e il mezzadro, pur stando ovviamente peggio dei padroni, non arrivava mai a fare la fame: la percentuale del raccolto che gli spettava bastava alla sussistenza di tutti. Anche, ma non solo, per questa ragione, qui l’industria non ha mai preso piede, le terre sono rimaste agricole più a lungo e le fabbriche sono nate altrove, con una conseguente conservazione di quel paesaggio agricolo che porta così tante persone in giro per la bassa Toscana; e che alle volte non le fa più andare via, come è successo a me.

Le peculiarità di questo luogo hanno origine in epoche ancora più distanti: milioni di anni fa, nel Pliocene, le terre dalla Val d’Orcia e fino al basso Chianti erano coperte dal mare. Il suolo, a Pàcina, è ricco di sabbia e molto minerale, e spesso gli stranieri che assaggiano il vino fatto qui lo trovano salato, come se il mare fosse molto più vicino dei 100 km di distanza che separano in linea d’aria Castelnuovo Berardenga dalla costa grossetana. Tra le vigne è facilissimo trovare fossili, conchiglie e sedimenti marini, come capita spesso anche a me durante le mie passeggiate vicino casa, testimonianza della geologia del luogo.

La monocoltura in questo territorio è più difficile che in altri paesi del mondo, ma ci sono comunque scelte da fare se si vuole preservare il territorio e la salute del suolo. Pàcina ha 63 ettari di terra, ma solo 11 sono dedicati alle vigne, anche se potrebbero arrivare fino a 40: l’intento è quello di favorire un equilibrio agronomico tramite scelte che stimolino la biodiversità naturale. Tanta superficie è lasciata al bosco, diversi ettari ospitano gli ulivi e altri sono coltivati a farro, ceci e lenticchie, in rotazione con lino, canapa e trifoglio.
La posizione, in questa valle, è favorevole: c’è luce, che stimola la crescita, c’è vento, che asciuga l’umidità eccessiva in vigna, e allo stesso tempo protezione dalle correnti fredde, pericolose per la fioritura della vite. Il paesaggio è intatto, a 360 gradi. Boschi, colline e poderi, nient’altro.

Le vigne più vecchie, piantate dal nonno di Giovanna, hanno rispettivamente 40, 60 e 70 anni. La più longeva, all’impianto, è stata pensata per la raccolta meccanica, non potendo prevedere la svolta delle generazioni successive verso un altro tipo di gestione. Ci sono piloni di cemento e non di legno e un certo spazio tra i filari, ma tutt’oggi è la vigna che dà il vino migliore.
La vigna più giovane, di Sangiovese, ha 6 anni. È stata piantata nel 2016, e aveva solo un anno nell’annata 2017, quando l’eccezionale e prolungata siccità (non ha piovuto da gennaio fino a ottobre) ha messo a dura prova boschi, colture, animali e risorse idriche. La vigna giovane però ha tenuto, nonostante non sia stata innaffiata, pratica che la legge consentirebbe sui nuovi impianti. Il pensiero di Giovanna e Stefano è stato: se ce la fa è perché il posto è quello giusto, altrimenti è quello sbagliato; o ancora, non è più tempo di fare vino. La radice è andata in profondità, a cercare nutrimento e risorse idriche, e questo ha aiutato le viti a superare le condizioni molto pesanti di quell’estate.

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Chi oggi abita e vive Pàcina è cosciente di quanto sia tutto sommato superflua la produzione del vino. Senza cibo si muore, senza vino si vive lo stesso, certo con meno gioia, ma si vive. Ed è anche in questa consapevolezza che viene percepita ancora più nel profondo la necessità di farsi custodi di un territorio, di preservare biodiversità e fertilità del suolo, anche di migliorarne le condizioni, dove possibile, ma mai peggiorarle.
Se si può arrivare razionalmente a comprendere (ma non necessariamente a condividere) che nella produzione di cibo la salute ambientale venga più o meno inconsapevolmente messa da parte in favore di una – presunta – produttività maggiore (con gli agricoltori, le università e le politiche agricole ancora in gran parte preda delle false promesse della Rivoluzione Verde, dopo oltre 70 anni, tanti nuovi studi e una crisi climatica ed ecologica palesemente in atto da almeno un paio di decenni), suona invece ancora meno tollerabile che una produzione a uso ricreativo inquini e impoverisca suolo e acque.
Ma è appunto la cultura a monte ad essere vecchia e corrotta; è forse più facile per chi si avvicini all’agricoltura da ambiti umanistici trovare una direzione sana e sostenibile, rispetto a chi esca dalle facoltà di agraria. In uno degli ultimi capitoli del suo bel libro Insurrezione Culturale, Jonathan Nossiter racconta di una proiezione di Resistenza Naturale con successivo dibattito tenutasi nel 2014 a Milano, in cui professori della Facoltà di Agraria milanese, presenti insieme a diversi studenti, hanno osteggiato e deriso i produttori vinicoli presenti definendoli contadini ignoranti e superstiziosi, negando le responsabilità dell’agricoltura chimica su salute di suoli e persone e ridicolizzando le pratiche naturali e chi le fa, “stregoni e vuduisti della biodinamica”, fatto che si è ripetuto durante altre proiezioni successive in ambienti universitari. Alla domanda su chi finanziasse le loro ricerche, però, hanno dovuto ammettere che non è certo il governo, ormai da anni, a farlo, ma le grandi multinazionali della chimica (e della manipolazione genetica delle sementi) come Syngenta, Bayer, al tempo anche Monsanto. Che di certo non hanno interesse a promuovere ricerche che remino contro i loro azionisti.

Enzo Tiezzi, il papà di Giovanna, non ha fatto l’agricoltore, ma ha continuato a portare avanti la fattoria insieme al fratello, improntando la produzione sul massimo rispetto dell’equilibrio ecologico, nel bel mezzo di una società, quella degli anni ’70, che correva all’impazzata verso le promesse della nuova agricoltura. Ma era anche l’epoca del risveglio di una coscienza ambientale, di cui Enzo Tiezzi è stato uno dei maggiori promotori, con le sue pubblicazioni – la più famosa e ancora attualissima porta il titolo Tempi storici, tempi biologici – col suo lavoro di docente universitario, contribuendo alla nascita di Legambiente e facendosi promotore, tra gli altri, del referendum sul nucleare del 1987, che ha avuto origine in parte sotto i tigli secolari di Pàcina.
Con Lucia, la mamma di Giovanna, ebbe l’intuizione di concentrare la produzione dal vino sfuso a quello in bottiglia, scegliendo di imbottigliare in un vetro leggero, col fondo piatto, in quelle che nel nostro immaginario sono bottiglie da discount. Una volta appurato che il vetro spesso e pesante non aggiungeva nulla alla qualità del vino, se non in apparenza, ha optato per il minor impiego di materiale possibile, che avesse un impatto più leggero sia sul sistema produttivo che nei consumi legati al trasporto, scelta che viene portata avanti tutt’oggi da Giovanna e Stefano.

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Un vino naturale si fa prima di tutto in vigna, tramite pratiche di agricoltura che supportino le innate potenzialità e difese di piante e suolo, rendendo poco o affatto necessari anche i trattamenti consentiti in regime biologico. Ma si fa successivamente anche in cantina, servendosi del lavoro dei lieviti indigeni presenti sui grappoli a accompagnando l’uva nel suo processo fermentativo senza intervenire con sostanze esterne, se non, e nemmeno sempre, con una piccola quantità di solforosa. Senza informarci non possiamo saperlo, perché in etichetta non è obbligatorio indicarlo, ma durante la vinificazione sono ammesse una discreta quantità di sostanze che uva non sono, pensate per rendere il vino stabile, conservarlo nel tempo, modificarne colore, gradazione e percezione gustativa. Se a questo si aggiunge una conduzione convenzionale delle vigne, con uso massiccio di diserbanti, fertilizzanti, antiparassitari e fungicidi, la bottiglia avrà un impatto alto, in termini ambientali e di salute pubblica.

Non starò qui a spiegarvi cosa sia un vino naturale, che seppur in tema renderebbe l’articolo troppo lungo togliendo spazio ai protagonisti, ma l’ha fatto tanto bene e con ironia Diletta Sereni, che ne sa ben più di me sull’argomento, nell’articolo I vini naturali spiegati a mia madre, che vi invito a leggere qui.

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Diletta l’ho incontrata durante una vendemmia a Pàcina intenta a cogliere grappoli sotto un sole potente e nuvole di tafani (alla faccia della visione bucolica del lavoro nei campi, come ho potuto sperimentare io stessa anni fa), quando mi sono presentata con Urano in vigna a fare qualche foto. Di lì a qualche giorno ci saremmo riviste, anche con Giovanna, in occasione della festa per i 15 anni di MondoMangione, per la presentazione della guida edita da Altreconomia L’Italia di vino in vino – Itinerari a piedi o in bici alla scoperta dei vignaioli biologici e naturali,  di cui Diletta è co-autrice insieme a Luca Martinelli e Sonia Ricci, e in cui Pàcina è ovviamente citata tra i produttori toscani. Una guida consigliatissima se cercate qualche buona bottiglia da conoscere e qualche visita in cantina da organizzare. La maggior parte delle foto che ho messo in questo articolo arrivano da quella giornata in vigna di tre anni fa, e mi viene un po’ il magone al ricordo di Urano che era ancora la mia ombra e di quanto tutti avessimo meno pensieri.

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Per chi fa autenticamente vino naturale, il vino più che un prodotto del territorio ne è un’espressione. Espressione che oggi viene paradossalmente ostacolata dai disciplinari che regolano la DOC e la DOCG: il vino di Pàcina, che rientra nel territorio della denominazione DOCG Chianti Colli Senesi, ha rinunciato da diversi anni ad averla in etichetta, pur essendo stata una delle prime aziende ad aderire al disciplinare alla sua nascita. Quando le certificazioni hanno iniziato ad andare più verso una certa idea di mercato che impegnarsi nel tutelare un’effettiva denominazione di origine, Pàcina ha preso strade diverse, per poter continuare ad essere autentica manifestazione del proprio territorio nelle specifiche annate, senza filtri. La DOC vuole uno standard, che possa essere riconosciuto in tutti i vini che appartengono a una certa denominazione, ma la natura di standard ha poco e niente: evolve, cambia, segue le stagioni, i loro stravolgimenti, le annate in cui i proverbi contadini non quadrano più. Vuole lieviti selezionati, additivi, modifiche al colore, perché un vino rispecchi quanto richiesto dal disciplinare. Esempio perfetto della contraddizione è la testimonianza in Resistenza Naturale di Corrado Dottori, che racconta l’esclusione del suo Verdicchio 2011 dalla DOC a causa del colore: non il giallo paglierino che la commissione vuole, ma un giallo dorato, testimonianza sincera di un’estate caratterizzata da un caldo fuori dal comune, di bucce scottate che non avrebbero mai potuto dare un paglierino, a meno di chiarificare il vino con mezzi artificiali.

A Pàcina si coltivano uve Sangiovese, Canaiolo, Ciliegiolo, Trebbiano e Malvasia, tipiche del territorio, e anche un pochino di Syrah, un piccolo vezzo “esotico”. Se ne ricavano 9 diversi vini: 6 tipologie di rosso (Pàcina, Il Secondo, Canaiolo, La Malena, Villa Pàcina e Pachna), il Rosato, e un bianco, La Cerretina. Dall’appassimento delle uve secondo la tradizione toscana si ottiene anche un vin santo, La Sorpresa, in quantità limitate.
Il Secondo, rosso ottenuto dalla vigna più giovane in produzione, di recente si è nascosto per lasciare temporaneamente il posto al Donesco. La vigna giovane nel tempo è cresciuta – oggi ha 15 anni – e ha iniziato a dare un vino ben più strutturato rispetto agli standard del Secondo. Così è stato anagrammato, in attesa che sia abbastanza adulto da trasformarsi nella Riserva, il Pàcina; nel frattempo la vigna impiantata nel 2016, che nel 2021 ha dato i primi frutti utili alla vinificazione, tornerà a produrre Il Secondo.
La prima annata del Donesco è la 2017, quella della siccità: la gradazione è di 15°, bella tosta. In generale, con l’innalzarsi delle temperature, ci si aspettano negli anni a venire gradazioni più alte della media, nel vino naturale, soprattutto nelle bottiglie ottenute dalle viti di più recente impianto. Il calore e la siccità concentrano gli zuccheri nelle uve, a cui seguono fermentazioni più spinte in cantina e un maggiore tasso alcolico.

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L’annata 2018 del Donesco l’ho assaggiata dopo una recente visita a Pàcina, a febbraio. Sono passata a fare una foto di gruppo, che mi mancava per finire questo articolo, e mi sono fermata a fare due chiacchiere con Giovanna e sua figlia Maria, a fare un giro nell’orto a riposo e tra gli animali da cortile.
Maria Borsa, insieme al suo compagno Roberto Maccari, ha ampliato l’orto familiare e reintrodotto gli animali, prendendosene cura in prima persona. Tra cui Kartoffen, cane amico di oche e galline :). Dopo gli studi in scienze politiche e relazioni internazionali ha viaggiato un po’ insieme a Roberto, per esplorare da vicino diversi approcci alla terra e varie modalità di gestione. In Australia si sono dedicati a periodi di lavoro in diverse aziende che adottano la permacultura o seguono i princìpi dell’agricoltura rigenerativa, passando in particolare molto tempo nei campi di Epicurean Harvest, che coltiva piccoli ortaggi per la ristorazione dedicando la maggior parte dei terreni a progetti di rigenerazione, così preziosi in un clima difficile come quello australiano. In Italia, sulla costa Tirrenica, hanno anche vissuto l’esperienza dell’orticoltura biologica su larga scala, quella che serve supermercati e grandi catene. Vivere dal di dentro diversi modi di approcciarsi alla terra porta a definire meglio la propria idea di agricoltura, che cosa ci appartenga e cosa invece no. È con questo bagaglio che Maria e Roberto hanno iniziato a portare il loro contributo, che è di certo più prossimo all’approccio dell’agricoltura rigenerativa, adattata al proprio specifico territorio: tornati a Pàcina, hanno ampliato le colture orticole, costruito un pollaio mobile (bellissimo!) per il pascolo rigenerativo delle galline, sperimentato tanto, raccolto frutti, e fallito, anche, imparando di conseguenza. L’orto di Pàcina resta un orto familiare, non finalizzato alla vendita all’esterno, ma succede pure che una produzione fin troppo generosa di peperoncini porti a interrogarsi su come liberarsi di tutta quell’abbondanza e ad imbottigliare un tabasco strepitoso, che potrebbe anche diventare un prodotto vendibile in futuro. Io ci spero davvero! Ho provato ad accaparrarmi un’altra bottiglietta ma era già finito (se vi ricordate qualche mese fa l’ho usato qui).

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Tra i prodotti di Pàcina, oltre al vino, ci sono olio extra-vergine d’oliva, farro, lenticchie, semi di lino. I campi a cereali e legumi, che aumentano la diversità agricola della Fattoria, vengono seguiti in collaborazione col Podere Pereto, e danno risultati buoni quanto il vino. Poi ci sono beni intangibili, in distribuzione gratuita: la pace di questo luogo, il cuore di chi lo abita, la grazia del paesaggio, la quieta bellezza della struttura e dei tigli secolari davanti all’ingresso dell’ex-convento.

Dall’apprezzamento sincero per questo luogo nasce anche la voglia di portare gente nuova a conoscerlo meglio, sia con queste righe, che con una presenza fisica concreta. Al di là che la Fattoria, su prenotazione, è aperta alle visite (chiamate prima, che Pàcina non è solo un’azienda agricola ma anche casa di chi ci lavora :)) e organizza per chi lo richiede un giro di campi, cantina e degustazione a prezzo contenuto, ho proposto a Giovanna di portare da loro un gruppo per una passeggiata botanica, e ne è stata molto felice. Quindi domenica 10 aprile vi porto a Pàcina per una delle mie passeggiate botaniche, ché ovviamente una corretta gestione agricola che favorisca la vita e la biodiversità rende il luogo più che adatto per osservare e conoscere la flora spontanea. Vi porto a conoscere non solo le sue piante selvatiche, ma anche il luogo e chi con tanta cura lo custodisce, e ad assaggiare il suo vino. Potrete anche portarvi a casa qualche bottiglia se vi va – la vendita diretta sarà aperta – ma anche un sacchetto di lenticchie, di ceci o di farro, che a detta di alcuni cuochi sono tra i migliori della zona. Si inizia alle 10, e si cammina, lentamente, come sempre, fino alle 12:30. Giovanna ci parlerà anche un pochino della sua terra e di come la custodisce insieme alla sua famiglia, poi ci offrirà un bicchiere di vino a fine passeggiata. Se volete, in aggiunta alla passeggiata della mattina, potete anche prenotare direttamente con Pàcina una visita pomeridiana della cantina con degustazione: avrete tutto il tempo di fermarvi a mangiare una cosetta in paese, che dista appena un paio di minuti, e tornare. Tutte le informazioni sull’evento le trovate qui.

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Chiudo, ma lasciandovi come sempre a qualche approfondimento a fine articolo, aggiungendo che a Pàcina l’accoglienza si traduce anche nella possibilità di un soggiorno in Fattoria. A Pacinina, un casale distaccato dalla struttura principale, è stato predisposto un agriturismo, con quattro appartamenti corredati da spazi comuni. La primavera da queste parti è una meraviglia, godersela per qualche giorno a Pàcina sarebbe un gran regalo da farsi e da fare :).

 

Fattoria di Pàcina
Web: www.pacina.it
Dove: Località Pàcina – Castelnuovo Berardenga (Siena)
Contatti: +39 0577 352040 – [email protected]
Social: instagram, facebook.

 

Altre informazioni utili

Pàcina, il suo vino, i suoi custodi 2Dove si compra il vino di Pàcina, a parte a Pàcina? Da un paio d’anni è distribuito da Triple A, dove la tripla A sta per Agricoltori, Artigiani, Artisti. I vini e gli altri prodotti di Pàcina li trovate qui. La Triple A non solo fa una selezione di produttori eccellente, a cui riserva condizioni vantaggiose per la vendita del vino (per Pàcina la loro proposta di distribuzione in pieno lockdown, con ristoranti chiusi ed esportazioni ferme, è stata una risorsa preziosissima), ma li racconta anche parecchio bene, con articoli davvero ben scritti, che scorrono come il vino buono. Quelli su Pàcina, ad esempio, li trovate qui.
Triple A vende ai privati e distribuisce a negozi e ristoratori; sul loro sito c’è sia una mappa dei produttori distribuiti, sia una mappa dei negozi e ristoranti serviti in tutta Italia.

Pàcina, il suo vino, i suoi custodi 2Ho citato più volte Jonathan Nossiter e il suo film, nel mio articolo, oltre ad un suo libro. Amo molto questo autore, il suo sguardo e il suo pensiero, e i documentari che ha dedicato al vino. Il suo Resistenza Naturale è interamente girato in Italia, ed è nato in modo molto spontaneo, senza l’idea iniziale di farne un film. Oltre a Pàcina, gli altri vignaioli raccontati nella pellicola sono La Distesa di Corrado Dottori e Valeria Bochi (di cui ho accennato qui, ispirata dalla lettura dei libri di Corrado), Cascina degli Ulivi, al tempo di Stefano Bellotti, purtroppo scomparso pochi anni fa, ora in mano alla figlia Ilaria, e La Stoppa di Elena Pantaleoni.

Pàcina, il suo vino, i suoi custodi 2Restando su Jonathan Nossiter, sul suo instagram si definisce, tra parentesi, cineasta pentito, e prima di tutto agricoltore. Oggi infatti si dedica anima e corpo ad un progetto agricolo nato pochi anni fa sui terreni vulcanici del Lago di Bolsena, un orto-vivaio dove vengono recuperate varietà tradizionali e antiche di ortaggi. Si chiama Orto Vulcanico La Lupa e ho in mente di visitarlo da un po’, ovviamente procrastinando a tempo indeterminato, come mi si confà; ultimamente però con Jonathan ci siamo scritti per pensare ad una delle mie passeggiate botaniche all’Orto, quindi ci sta che succeda presto ;).
Ne hanno scritto già in molti, tra cui la stessa Triple A, che distribuisce anche le sue conserve di pomodoroIl Gambero Rosso e Vice (qui sempre a firma Diletta Sereni).

Pàcina, il suo vino, i suoi custodi 2Giovanna ha una sorella maggiore, Elisa Tiezzi, che come il padre Enzo ha percorso la strada accademica – insegna matematica all’università di Siena – ma non ha certo perso il contatto con la terra. A pochi chilometri da Siena affianca il marito Giovanni Massone nella produzione di vino naturale, con l’azienda biologica Santa 10, che produce due rossi, il riserva Santa 10 e il giovane Santa Subito, un bianco, il Santa Tre, e un brandy, lo Spirito Santa. Da qualche anno Elisa si dedica anche alla produzione di un profumatissimo sciroppo di rosa, che produce dalle piante del suo roseto, e che potete trovare a Siena da MondoMangione, insieme al brandy e al Santa Subito.

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